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giovedì 24 ottobre 2013

L’ultimo D’Annunzio. ‘Qui giacciono i miei cani’



Qui giacciono i miei cani – 




Qui giacciono i miei cani
gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla.
 
Gabriele D’Annunzio, ottobre 1935
 
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Tutti conosciamo D’Annunzio per come i media, nei decenni, lo hanno tramandato: eroe, vate, poeta, politico, seduttore. Ma, l’Uomo? Questo precoce poeta che, a sedici anni, potè già pubblicare il suo Primo Vere (1879) e avviare così lo slancio per la sua copiosa produzione letteraria, che cosa era in realtà?
***
Sono convinto che questa poesia di drammatica forza introspettiva, rappresenti il vero testamento spirituale e umano di Gabriele D’Annunzio.
Al contrario di quanto ho scritto a proposito de L’Eternità di Rimbaud, qui i versi sono radicalmente ancorati a ciò che è materiale, all’infima natura umana. E perciò il Poeta delega a queste parole lo spietato compito di gridare il bilancio di una vita che potrebbe appartenere, in fondo, a chiunque.
Perché i cani? D’Annunzio amava follemente i levrieri; li allevava, li curava e li teneva sempre in alta considerazione, anche nelle opere. Una volta ne ferì uno per disgrazia, con il suo cavallo che si era imbizzarrito a causa di una carcassa di cane morto riversa sulla spiaggia; episodio narrato con verace drammaticità, per quanto, a chi scrive qui, abbia suscitato, invero, un raro scoppio di risa.
Non penso che in questi versi sia sorta di critica improvvisa e negativa ai cani. Già ne Il compagno dagli occhi senza cigli egli, parlando all’amico Dario, gli dice che i cani sono oziosi ed infedeli; insomma, in quelle parole già si anticipano alcune delle riflessioni inserite in questa poesia.
Primi 7 versi
L’Opera si apre con una visione lugubre: il sepolcro dei cani. Come un epitaffio, Qui giacciono i miei cani. Ma poi aggiunge che essi sono stupidi, inutili, impudichi e fedeli all’ozio. Questa fedeltà non era per il loro padrone (che si defininisce uomo da poco). Parrebbe che il Poeta, sopravvissuto ai suoi tanti e svariati cani, adesso si renda conto di quanto egli si sia illuso di poterli possedere, amare ed esserne ricambiato.
Ma attenzione: i cani sono allegoria di tutto ciò che un uomo può illudersi di possedere.
Versi da 8 a 19
Pur morti, scheletri, i cani continuano a rosicchiare le ossa; le loro ossa, però. Sono fedeli alla loro natura, questo certamente.
E, D’Annunzio insiste, dice:
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
La visione è drammatica, sconvolgente. Senza posa i cani continuano il loro lavorìo, corrodendo la sensibilità dell’Autore, facendolo precipitare nell’angoscia.
E queste ossa sono secche, senza midollo, come la bocca dei cani è senza saliva. Le ossa sono così pulite che il Poeta ne potrebbe fare un flauto di Pan, a sette canne.
Pan, dio non olimpico greco, rappresenta il tutto, come parola e D’Annunzio non esita a collegare il tutto alla Morte che tutto avvolge, ultima vincitrice delle umane passioni.
Ultimi 4 versi
E, infine, l’amara constatazione: non è forse l’Uomo stesso, che in culla succhia le proprie dita, durante la maturità possiede quello che può, della vita e poi… forse finisce come quei cani, che rosicchiando ossa vuote? Allora ecco che ogni uomo, in conclusione, è il cane del suo nulla.
D’Annunzio ha gettato la maschera che, in un modo o nell’altro si era attribuito e gli avevano voluto attribuire. Con questi versi spazza via l’idilliaca Pioggia nel pineto, il Primo Vere e la dolcezza degli innamoramenti cantati nelle sue poesie giovanili successive.
Il Pineto semmai è, in definitiva, il sepolcro ove giacciono i suoi cani.

1 commento:

  1. In tali versi dall'enorme e geniale decadentismo,il Vate,forse
    conscio dell'imminente fine del suo cammino terreno,qui fissò
    per l'Eternità,con velata malinconia e metafore lampanti la sì
    tangibile e incontrovertibile condicio umana.Qui c'è l'uomo in
    quanto tale,al di là delle sue propie distinte arti,ognuno
    accomunato,dal sempre tragico destino della Morte.


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